Prima stampa in Italia nel 2025 da Ciscra S.p.A. - Villanova del Ghebbo (RO)
Ecco il risultato di un viaggio meraviglioso iniziato un pomeriggio di marzo del 2024 con una telefonata tra noi due, amici sin dai tempi dell’università. Non ci sentivamo da tanto tempo ma con poche parole ci siamo intesi subito, perfettamente sintonizzati su quello che volevamo realizzare: una guida illustrata per far conoscere alle giovani generazioni la musica d’autore italiana. Un progetto ambizioso, da perseguire con allegria e dedizione, dentro cui riversare le nostre conoscenze e soprattutto la nostra passione.
Un libro dunque per i più giovani, ma non solo, anche per le generazioni che ci hanno preceduto e per gli appassionati. Un libro unico, prezioso, che racconta le canzoni che hanno rappresentato la colonna sonora della nostra vita. Le canzoni che associamo al ricordo di una serata, di una gita, di un evento importante o magari di una delle tante persone che hanno attraversato il nostro passato e di cui ora resta solo una traccia nell’anima. Le canzoni con cui abbiamo sognato e quelle che ci hanno aiuto a crescere e a capire, a svelare le ingiustizie, scoprire la ricchezza e la complessità del mondo e della storia, ma soprattutto a trovare noi stessi. Quelle che ci commuovono e ci fanno venire i brividi, o entusiasmare, o sorridere, e quelle che ci fanno pensare.
Elettrizzati dal nostro progetto, abbiamo cercato un illustratore appassionato come noi di musica italiana: una matita che sapesse ascoltare, capace di catturare in un unico tratto delicatezza e realismo per rendere la lettura dei nostri testi leggera e piacevole. Siamo rimasti incantati dai disegni di Alessandro Ventrella. Lo abbiamo contattato. Anche con lui è bastato veramente poco per renderci conto che condividevamo gli stessi obiettivi. Alessandro non ha esitato a unirsi a questa gioiosa e imprevedibile avventura, diventandone un pilastro fondamentale.
Abbiamo proposto le prime bozze con gli esempi di scrittura e di illustrazioni alle Edizioni Curci. È così che abbiamo incontrato Laura e Cinzia. Abbiamo percepito subito la loro fiducia e capito che il libro le entusiasmava. Sarebbero state loro le nostre compagne di viaggio: con il passare dei mesi, abbiamo ponderato insieme le scelte più importanti, condiviso le piccole e grandi perplessità, trovando sempre le soluzioni più calzanti.
Quando è arrivato il momento di definire il contenuto della nostra guida illustrata, abbiamo stilato una lista degli artisti, quelli che normalmente vengono considerati i “cantautori”.
Ci siamo accorti però della difficoltà e dei pericoli a cui ci esponevamo se avessimo assecondato quella tendenza inspiegabile a tracciare categorie e attribuire etichette. Così, non abbiamo esitato ad ampliare l’orizzonte. La nostra opera poteva abbracciare i grandi della canzone d’autore ma anche quegli artisti che, per vari motivi, non sono mai entrati a far parte della narrazione dominante dei “canoni” del cantautorato. Abbiamo però deciso di escludere i gruppi musicali: avrebbero reso l’opera davvero lunga e complessa, aprendo finestre che portavano troppo lontano.
Non restava che identificare un arco temporale che stabilisse l’inizio e la fine del nostro oggetto di studio. Decidere l’inizio non è stato complicato: gli anni ’50, gli albori della canzone d’autore, il periodo in cui la musica italiana conosceva lo swing e il rock ‘n’ roll. Un periodo in cui, soprattutto, i nostri cantanti cominciavano a innovare. Come quel Domenico Modugno che, il primo febbraio 1958, presentò al Festival di Sanremo una canzone originalissima, cantando in modo diverso da ogni altro artista, con le braccia aperte al cielo e immaginando di dipingersi di blu. Poi ci serviva un punto conclusivo, un limite credibile che garantisse una prospettiva storica ma evitasse il rischio di ancorarci troppo al passato. Ci siamo accorti che proprio il 1958 poteva non solo diventare un momento cruciale nel racconto delle origini della nostra canzone d’autore, ma avrebbe potuto indicarci anche un punto di confine. Ci saremmo occupati di quegli artisti nati entro quell’anno così emblematico per la canzone italiana: avremmo cominciato con Renato Carosone (nato nel 1920) e terminato con Gianmaria Testa (nato nel 1958).
Restava da decidere come organizzare il libro. Potevamo presentare gli artisti in ordine cronologico? Ma no! In ordine alfabetico? Da escludere categoricamente. Era impossibile raggruppare tutti in base a presunte generazioni di cantautori (prima, seconda, terza, ecc.), o ad altrettante presunte “scuole” (genovese, romana, bolognese, milanese, ecc.). Abbiamo risolto il problema partendo da una prospettiva storica per poi sviluppare la narrazione sulla base delle affinità musicali e compositive dei vari artisti. Mettendo insieme i pezzi che componevano le varie sezioni, ci siamo resi conto che il libro aveva preso le forme di un viaggio intenso e immaginifico, lungo i sentieri della canzone italiana.
Abbiamo lavorato ovunque: i tragitti sui mezzi pubblici, le pause pranzo e i dopocena si sono trasformati in momenti preziosi e indispensabili per leggere libri, spulciare interviste
e, soprattutto, ascoltare musica. Abbiamo scritto, riletto, corretto e, talvolta, discusso per un aggettivo di troppo, una dimenticanza inaccettabile o una modifica non necessaria, proprio come fanno gli amici che discutono tra loro di musica. Le illustrazioni che Alessandro ci sottoponeva ci sono state di sostegno, ci hanno rallegrato e fatto capire che eravamo sulla giusta traiettoria, che stavamo realizzando qualcosa di bello.
Adesso spetta a voi, care lettrici e cari lettori, fare vivere questa storia, costruita con passione ed entusiasmo. Non trattatela come un’enciclopedia. Pensatela come una guida di viaggio, sentitevi liberi di saltare pagine, tornare indietro e ricominciare. Non abbiate paura di aggiungere le vostre considerazioni, i vostri pensieri e reazioni. Pensate al libro come a una collezione di itinerari da tenere a portata di mano per accompagnare il vostro personale percorso di ascolto, libero di variare a seconda di come ciascuno di noi ascolta la musica o vive un verso. La canzone italiana è molto più di un grande mare, è un intero universo: un cielo notturno e splendente, sopra l’oceano scuro, trapuntato di stelle pungenti, e di galassie che si intrecciano nell’anima, in un viaggio senza fine e senza meta. Tanto lontano ci ha portato quel volo!
All’inizio di ogni capitolo troverete un QR code che vi rimanderà a una playlist disponibile online, su Spotify. Questa contiene i nostri suggerimenti d’ascolto, per stuzzicare la vostra curiosità.
È giunto il momento di iniziare il viaggio nella storia della canzone d’autore italiana, un viaggio fatto di tante storie diverse, dove si intrecciano luoghi, pensieri, avvenimenti, versi, idee. Una storia di voci libere.
Buona lettura e, soprattutto, buon ascolto.
Emanuele e Luigi
22 Settembre 2025
Note & poesia
Fabrizio De André
Francesco Guccini
Francesco De Gregori
Roberto Vecchioni
Claudio Lolli
Gianmaria Testa
Possiamo fare musica per il puro diletto di divertirci, sperimentare e affinare la nostra tecnica o il canto. Ci sono però melodie che, quando entrano nelle nostre orecchie, le percepiamo come dotate di una forza straordinaria. Pensate alla musica classica e a come questa riesca a evocare, con i soli strumenti, il verso degli animali, l’incedere delle stagioni, come sappia raccontare situazioni, suggerire sentimenti e stati d’animo, la gioia o la tristezza. Poi ci sono le poesie, come quelle studiate sui libri di scuola. Loro
tengono il ritmo e la melodia nascosti dentro le sillabe. Ma che ci sia una musica in loro è sin troppo evidente. Infine ci sono canzoni che sembrano sprigionare un’incredibile potenza emotiva ed evocativa: la musica dipinge l’atmosfera, dirige i battiti, detta le pause, aggiunge vigore ed emozioni a parole ricercate con sapienza.
Certamente le canzoni non possono fare rivoluzioni, ma ci sono voci libere che hanno dimostrato come le canzoni, altrettanto certamente, possano fare poesia.
Fabrizio De André
Grazie a Fabrizio De André, sul finire degli anni ’60, la canzone d’autore italiana fa un impressionante salto di qualità. La forza poetica e la bellezza delle sue canzoni sono dirompenti.
Nessuno può ignorarle. Ma De André è anche il portatore di un pensiero, radicale, molto lontano dall’opinione dominante. Come Caravaggio nella pittura, Fabrizio con la grandezza della sua arte ci spinge a fare i conti con una visione alternativa della società e dell’essere umano: con il pensiero politico e l’etica dell’anarchia, che nell’epopea e nella liberazione degli ultimi, degli oppressi e degli emarginati trova il senso della vita e della storia. Sono idee cui rimarrà fedele per tutta la vita.
Nasce a Genova, nel 1940, da una famiglia importante (suo padre sarà anche vicesindaco). Da ragazzo i genitori lo mandano a lezioni di violino e di chitarra ma, soprattutto, il padre gli riporta dalla Francia i dischi dei grandi artisti francesi che negli anni ’50 stavano rivoluzionando il mondo della canzone, grazie a testi bellissimi: irriverenti, poetici, profondi e ironici. Georges Brassens, soprattutto, è per il giovane Fabrizio una folgorazione: è da lui (ma anche da Léo Ferré) che in principio prenderà
lo stile e le immagini delle sue canzoni e, per molti aspetti, anche la visione etica e politica. Lo fa con una bravura e una coerenza del tutto comparabili; e con crescente originalità.
Nell’Italia spensierata degli anni ’60, De André canta il rifiuto della guerra e della retorica (La ballata dell’eroe, 1961; La guerra di Piero, 1964), lo sberleffo delle convenzioni (Il testamento, 1963), i vicoli malfamati (La città vecchia, 1965), le prostitute, con ironia e passione (Bocca di rosa, 1967, Via del Campo, 1967), il carcere e la forza liberatoria della morte (La ballata del Miché, 1961), o la solidarietà a chi implora il nostro aiuto, fosse anche un criminale (Il pescatore, 1970). È amico di un altro ragazzo geniale, Paolo Villaggio, con cui si diverte a frequentare i quartieri poco raccomandabili (è Paolo che lo ribattezza Faber): insieme compongono Il fannullone (1963), romantico sberleffo dell’etica del lavoro, e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers (1963), presa in giro del potere e della gloria.
La musica è semplice ed efficace, l’esecuzione impeccabile. La scrittura è fluida e diretta, alterna metafore e istantanee legandole con rime magistrali. La sua voce – rispettosa e altera, irriverente e delicata – è quella di un vero cantante. A queste doti tecniche, De André aggiunge la sua prospettiva, personale e universale a un tempo. Anche quando tratta quel sentimento misterioso chiamato amore, riesce a sorprendere: sceglie di parlare dell’età in cui l’amore si spegne e si fa nostalgia (Canzone dell’amore perduto, 1966), delle disumane crudeltà accettate in suo nome (La ballata dell’amore cieco, 1966), o delle sue naturali mutazioni dove
coesistono calore e gelo, rimpianto e speranza (Amore che vieni, amore che vai, 1966).
Nel 1964 Mina interpreta La canzone di Marinella (1963): dolce, commovente, nata da un articolo di cronaca nera, su una prostituta morta misteriosamente e ritrovata in un fiume. De André inizia ad avere successo. Il suo primo LP, semplicemente Vol. 1 (1967), si apre con la struggente Preghiera in gennaio: parla del suicidio –il suo amico Luigi Tenco – come nessuno aveva fatto mai in una canzone, né mai farà. Con Tutti morimmo a stento (1968), De André inaugura la stagione dei concept album. Ogni disco ruota attorno a un’idea, un progetto. Come dichiara allora candidamente in televisione, questo parla nientemeno che della morte: quella provocata dalle dipendenze (Cantico dei drogati), dalla guerra (Girotondo), dal potere (Ballata degli impiccati), dalla rassegnazione di un amore finito (Inverno). E si chiude con un’invocazione alla pietà da parte di tutte le anime oppresse: un Recitativo di un lirismo sconvolgente. Il disco, bellissimo, è anche un grande successo di pubblico. I critici iniziano a parlare di De André come del più grande cantautore italiano.
E Faber non ha nemmeno trent’anni. La buona novella (1970) fissa l’asticella ancora più in alto, se possibile. E inizia a differenziarlo anche da Brassens e Ferré. De André canta e reinterpreta addirittura la vita di Gesù, secondo i Vangeli apocrifi. Lo fa da ateo, che vede in Gesù un uomo, un rivoluzionario, fra i primi a parlare di uguaglianza e perdono. In un contesto di critica del potere e delle convenzioni, si avverte tuttavia un sentimento del sacro – in capolavori come Tre madri, Il ritorno di Giuseppe,
Cantare la libertà
Enzo Jannacci
Giorgio Gaber
Franco Califano
Pierangelo Bertoli
Rino Gaetano
Renato Zero
Giuni Russo
L’Italia è il paese di Bella ciao, canto di un partigiano morto per la libertà. Quell’ideale imprescindibile, sogno di donne e uomini che vivono il dramma della dittatura, della guerra, della povertà. Attenzione però a che la libertà non si trasformi in un concetto sfuggente, scolpito di vuoto e solitudine. Si correrebbe il rischio di farla diventare un inganno, un’aspirazione obbligatoria dentro cui, in realtà, finiamo per essere intrappolati. I grandi valori hanno bisogno di nutrirsi continuamente delle nostre riflessioni, prima
ancora di manifestarsi nelle idee e nei comportamenti. Per alcuni cantautori, la libertà è stata sinonimo di forza, l’hanno sentita pulsare nelle loro vene, l’hanno vissuta e rischiata, o fatta scintillare nei loro vestiti stravaganti. Altri hanno trovato nella libertà l’ispirazione per la fede, la poesia, o l’ironia. E cosi non c’è cosa più bella che lasciarsi inebriare da quelle voci libere che hanno deciso di affidare all’ideale di libertà le redini della propria intelligenza, della passione e del sorriso.
Enzo Jannacci
Lo diciamo forte e all’inizio: Enzo Jannacci è l’artista più innovativo, dirompente, geniale della canzone italiana.
Per quali motivi? Intanto c’è la vena satirica. In Italia Jannacci ne è il caposcuola, con uno stile cabarettistico ma con venature jazz e rock ’n’ roll, e raggiunge uno straordinario successo di pubblico: i vertici sono Vengo anch’io, no tu no (1967), forse il suo brano più celebre, e Ho visto un re (1968), con testo di Dario Fo. Ma prima c’erano già state, fra le altre, Una fetta di limone (1960), con Giorgio Gaber, L’ombrel-
lo di mio fratello (1961), Il cane con i capelli (1961), Andava a Rogoredo (1964), Aveva un taxi nero (1964), L’Armando (1964), anch’essa scritta con Dario Fo, Faceva il palo (1966) e altre perle meno note: provate ad ascoltare Sopra i vetri (1965)!
Rispetto alla satira, o alla semplice ironia, Jannacci però ha qualcosa di particolare, forse unico: riesce a mescolare, nella stessa canzone, la protesta e il nonsense, il sorriso e il dramma. Guardiamo a El portava i scarp del tennis (1964), dove un ritmo allegrotto, il tono ilare e un ritornello accattivante si intrecciano con la denuncia delle disuguaglianze, simboleggiate da un emblematico paio di scarpe. O prendiamo Giovanni telegrafista (1967), dove invece è un dramma sentimentale a fare capolino sotto l’ironia (né sfugga l’innovazione: per ritornello la voce fa il suono del telegrafo).
E per quanto possa sconfinare nel demenziale, la satira rimane, come la profondità umana (che cos’è questo cane con i capelli, cui il tabaccaio non vuole dare le sigarette, se non il diverso, l’emarginato?).
Altre volte, Jannacci è drammatico. Forse questo è il suo aspetto meno noto, ma qui, pure, raggiunge le vette della canzone italiana. Sfiorisci bel fiore (1963) è il suo primo capolavoro di questo tipo. Tanto bella che sembra un canto popolare. E non è che l’inizio. Ecco Il duomo di Milano (1970): forse la canzone che
meglio riesce a evocare Milano, nel modo più struggente, malinconico, surreale. Oppure Vincenzina e la fabbrica (1975), canto del cigno, letteralmente, della grande fabbrica fordista. O il commovente ossimoro tra cielo e miniera nelle parole di un bambino, in Mamma che luna che c’era stasera (2006). O ancora, la solitudine anziana e danzante de L’uomo a metà (2003), che apre e intitola il suo ultimo album di inediti. E Jannacci interprete? Provate a sentire la sua versione di Io che amo solo te (2002), di Sergio Endrigo. Alcune delle canzoni drammatiche di Jannacci hanno un’intensità tale – musicale, lirica, interpretativa – da riuscire a commuovere.
Jannacci ha scritto canzoni che fanno divertire e che fanno piangere, a volte tutte e due le cose insieme (Soldato Nencini, 1966). Negli anni ’60, come un tornado ha sconvolto il mondo della canzone e dello spettacolo, con pezzi rivoluzionari, per di più in dialetto milanese, poi confluiti in La Milano di Enzo Jannacci (1964); seguono Enzo Jannacci in teatro (1965), uno dei primi dischi italiani realizzato dal vivo, composto quasi solo di inediti, e Sei minuti all’alba (1966), la cui title track è un autentico canto partigiano scritto insieme a Dario Fo; quindi Vengo anch’io, no tu no (1968). È all’apice del successo, Jannacci, ma proprio a quel punto decide di lasciare tutto per laurearsi in medicina, di lasciare perfino l’Italia per specializzarsi nei migliori centri al mondo di cardiochirurgia. Poi
Giorgio Gaber
A Milano, negli anni ’50, nel pieno del miracolo economico, Giorgio Gaber è un giovane spigliato, infatuato di jazz e di rock ’n’ roll. Nato nel 1939, figlio di immigrati (il padre è istriano, la madre di famiglia veneta), da bambino ha avuto la poliomielite. Suo papà crede che, per guarire quella mano leggermente paralizzata, imparare a suonare la chitarra sia la cura più efficace. Lui si diploma in ragioneria, si iscrive alla Bocconi: Milano è una città in fermento, Gaber incontra Enzo Jannacci: formano un duo, “I due corsari”, e lanciano canzoni nuove, graffianti, che anticipano il rock demenziale, come Una fetta di limone (1960). Rimarranno amici tutta la vita.
Gaber si scopre cantante, allegro, leggero. Ma mostra delle doti straordinarie da attore, cabarettista, mimo, come in Goganga (1963). Ha un discreto successo commerciale anche grazie alla sua bella presenza, lo sguardo furbo e un sorriso accattivante. Canta una Milano sognante, sulla sua Torpedo blu (1968), dall’ironia solo accennata, inizialmente. Nel 1965 sposa Ombretta Colli e intanto duetta con Mina. Eppure non ha nemmeno cominciato.
Gaber comincia a rendersi conto che le canzonette italiane non bastano più, si innamora dei francesi, di Jacques Brel (I borghesi, Che bella gente, 1971) e di quel che sta germogliando in Nord America. Ma questo lo fanno tutti, o quasi. Lui, grazie alle sue doti di attore, è destinato a provare una strada ancora diversa. Scopre il teatro, il parlato, gli sketch comici. E la satira. Nella scena culturale e sociale è arrivato il 1968, l’anno della contestazione. Per lui sarà una rivoluzione. È diventato amico di Sandro
Luporini, un pittore: abitano nello stesso quartiere, a Milano, e si ritrovano nello stesso bar. Insieme, discutendo, quasi con naturalezza iniziano a scrivere qualcosa di nuovo. Gaber ora affianca i monologhi ironici e irriverenti alle canzoni, al cabaret che viene dagli chansonnier francesi, o agli inni di protesta. Con testi via via più politici, attuali, dalle venature surreali, a volte, ma intessuti di ironia.
E qui, all’improvviso, la trasformazione. Alla fine degli anni ’60, Gaber inventa un nuovo genere. Tutto suo, nel mondo: il teatro-canzone.
Monologhi e melodie, recitazione e musica si alternano, a volte anche nella stessa canzone. E i suoi concerti diventano spettacoli teatrali. Il teatro-canzone permette a Gaber di dire in forma di musica quello che vuole. E lui diventa la voce che interpreta i cambiamenti più radicali dell’Italia fra gli anni ’60 e ’70: la liberazione dei sentimenti, il tumulto delle città (Com’è bella la città, 1970), lo sberleffo dell’autorità, o dei ruoli sociali (La nave, 1973), o del consumismo (Lo shampoo, 1972), il voler sperimentare relazioni nuove, o oltrepassare i confini dell’amicizia, o dell’amore di coppia. Ma con il sorriso, quasi sempre, prendendo in giro le mode e i conformismi, di ogni colore (Quando è moda è moda, 1978).
Gaber osserva una generazione che si contorce, si agita e sogna. La prende in giro e si entusiasma con loro. Ecco che inventa Il signor G, nel 1970, il primo disco del teatro-canzone, scritto con Sandro Luporini come tutti gli altri che verranno. Il suo alter ego? G sta per Gior-
Lucio Dalla
A Piazza Maggiore, Bologna, i bambini solitamente giocano al telefono senza fili sotto il Voltone del Podestà. Quel giorno però in piazza c’è un piccolo palco; un bimbo sale su e recita una filastrocca. Ha tre anni, si chiama Lucio.
I passanti che lo guardano meravigliati non immaginano che quel bimbo così spigliato e divertente diventerà un artista conosciuto in tutto il mondo. Un artista dotato di tecnica musicale e capacità compositive sopraffine e in possesso di un ingrediente segreto: considerare l’umanità intera come la più grande risorsa, fonte perenne di energia e ispirazione.
Lucio Dalla è stato il cantautore capace di unire tutti, come in una piazza gioiosa e festosa: giovani e anziani, rivoluzionari e pantofolai, anarchici e religiosi. Probabilmente perché era lui la piazza. Il suo canto affratella perché è dalla gente, dagli esseri umani di ogni genere, che riceve ispirazione.
Nel pieno del miracolo economico, a Bologna, tra i biassanot, i tiratardi che trascorrono la notte fra locali e osterie, incontriamo il gio-
vane Lucio, uno dei più talentuosi clarinettisti jazz. Lucio adora l’improvvisazione, come finestra di libertà da cui percorrere un cammino di note inaspettato e irripetibile. Oltre al clarinetto, possiede un vocabolario segreto e misterioso, un grammelot fatto di illogici ululati, guizzi, gorgheggi e vocalizzi gommosi. Le sue improvvisazioni vocali sono irresistibili, fenomenali benché eseguite con estrema naturalezza.
Gino Paoli è tra i primi ad accorgersi del suo talento e, sul finire degli anni ’60, lo invoglia a partecipare al Festival di Sanremo. Qui Lucio interpreta canzoni piuttosto stravaganti, il successo non arriva. Dalla è troppo vicino al jazz per adattarsi alle melodie tradizionali ed è troppo interessato alla musica per sposare la causa delle canzoni di protesta. Attorno a lui ci sono tanti amici. Nasce in quegli anni la collaborazione con Rosalino Cellamare (Ron) e con Gianni Morandi, che porta al successo Occhi di ragazza (1970), di cui Dalla scrive la musica. Intanto, Lucio conosce una giovane illustratrice, Paola Pallottino, che ama scrivere. Vuole portare uno dei suoi testi a Sanremo ma per farlo diventare canzone deve trovare la musica.
Per trovarla, torniamo a Bologna e raggiungiamo Via Piella. Li c’è una misteriosa finestrella. Aprendola, appare magicamente un fiume che scorre tra le case. Da lì, si può intraprendere un viaggio immaginario, raggiungere il mare fino alle Isole Tremiti. Qui Lucio inventa una musica stornellata che si attorciglia perfettamente al racconto dell’umanità accarezzata dal mare, reduce della guerra, capace di amare
e guardare avanti. Umanità a cui Lucio sente di appartenere. È tutto pronto, anche il titolo: Gesubambino. Ma all’ultimo momento: ALT! Il titolo non va bene… è scandaloso! Bisogna trovarne un altro in fretta e lui allora ha un’idea geniale: la propria data di nascita. 4 marzo 1943 (1971). In fin dei conti, Gesù bambino potrebbe essere lui. Il brano si classifica terzo al Festival di Sanremo ma il pubblico ha conosciuto il vero Lucio. Per dipanare ogni dubbio, al festival successivo, Lucio canta la commovente Piazza Grande (1972). Finalmente sembra aver trovato il suo ruolo: cantare e scrivere la musica. Al testo? Che ci pensino gli autori o meglio ancora i poeti.
A Bologna ce n’era uno eccezionale. Si chiamava Roberto Roversi: era stato partigiano e ora gestiva una libreria antiquaria, che Lucio frequenta. Insieme discutono di politica, commentano le trasformazioni sociali di quegli anni, immaginano canzoni. La collaborazione con Roversi si traduce in tre album eccezionali, letteralmente, nella storia della nostra canzone : Il giorno aveva cinque teste (1973), Anidride Solforosa (1975) e Automobili (1976). Sia per i testi che per le melodie, sono composizioni straordinariamente innovative: forse non facili nell’immediato, ma da approfondire e gustare a ogni nuovo ascolto, come opere d’arte. Tu parlavi una lingua meravigliosa (1975), Le parole incrociate (1975), L’auto targata TO (1973), Il coyote (1973), Due ragazzi (1976): Lucio è l’avanguardia, in tutti i sensi.
In quel periodo suona nelle fabbriche, nei teatri; conosce De Gregori, con cui nasce una straordinaria amicizia. Dallo stile di Francesco e
Lontano
Milva
Paolo Conte
Angelo Branduardi
Pino Daniele
Toto Cutugno
Umberto Tozzi
Sergio Caputo
Zucchero
La musica ha il potere magico di unire. Unisce gli innamorati intorno a un falò d’estate, accompagnati da una chitarra. Unisce gli amici intorno a un tavolo, con buon cibo e tanta allegria. Unisce anche persone che non si conoscono, ci porta ad abbracciare culture diverse e mondi lontani. Ascoltando la musica, talvolta ci sembra di essere proiettati magicamente in luoghi nuovi. È anche per questo che tanti nel mondo amano l’Italia. Perché grazie alle opere liriche, alle canzoni napoletane e poi a quelle più recenti tante persone hanno “sentito” l’Italia anche se non ci
sono mai stati. Ci sono artisti che hanno consentito alla canzone italiana di oltrepassare tutte le barriere politiche e geografiche. Ci sono voci libere che hanno spinto il proprio sguardo lontano dai nostri confini, prendendo ispirazione da melodie e musiche provenienti da altri paesi (jazz, swing, blues) o da ricercare nelle nostre radici, o a volte mescolando le due. Perché non c’è cosa più bella di pensare alla contaminazione e alla tradizione come a due facce splendenti di una sola medaglia.
Milva
Milva è una delle pagine più belle della storia d’Italia.
Nata nella provincia di Ferrara, possiede una delle migliori voci della nostra canzone (forse di tutti i tempi): matura, melodiosa, profonda.
Da ragazza studia lirica, mentre si esibisce fra le balere emiliano-romagnole con il nome d’arte di Sabrina. Nel 1959, a vent’anni, vince un concorso Rai per voci nuove: arriva prima su 7.600
concorrenti. Due anni dopo si classifica terza a Sanremo, con Un mare nel cassetto (1961), quindi seconda con Tango italiano (1962). Il successo esplode: nei primi anni ’60 Milva è di fatto, per popolarità e per ruolo nella canzone e nell’immaginario popo-
lare, la principale rivale di Mina. Tuttavia, il suo è un genere che potremmo definire “di retroguardia”, melodico e tradizionale, a cui lei ben si presta con il look da brava ragazza un po’ ingenua, con la distintiva capigliatura rossa. In realtà, è destinata a ben altro. La sua trasformazione sarà sorprendente.
Nel 1961 sposa Maurizio Crognati, ex partigiano, regista e produttore discografico. Da lui consigliata imprime una svolta radicale al suo repertorio. Nel 1963 pubblica il primo vero e proprio LP, Canzoni del tabarin – Canzoni di cortile, non più una raccolta di singoli: Milva reinterpreta, con arrangiamenti nuovi, brani degli anni fra le due guerre. Sono le canzoni dei “tabarin”, i caffè concerto, sorta di cabaret popolari in cui si mescolano canzoni e teatro, come nella squisita e ironica Gastone (1963), di Ettore Pretolini, o in Scettico blues (1963); nella seconda parte del disco c’è spazio invece per le canzoni dei cantastorie, “di cortile”, spesso a sfondo drammatico.
Ma il bello deve ancora venire. Nel 1965, per il ventesimo anniversario della Liberazione, pubblica Canti della libertà. Milva, ora soprannominata “la rossa” non solo per i suoi capelli ma anche per la sua passione politica, canta Addio Lugano bella, Fischia il vento, Inno a Oberdan, La Marsigliese e una bellissima
versione italiana di Lungo la strada, canzone della resistenza russa. Con quest’album, la sua immagine e la sua carriera cambiano per sempre. All’origine di tutto questo c’è l’incontro con Giorgio Strehler, fra i protagonisti della cultura italiana nel Novecento, fondatore del Piccolo Teatro di Milano, che le propone di interpretare i canti della Resistenza. Successivamente, collabora con lei per un’opera ancora più ambiziosa: il recital delle canzoni di Bertolt Brecht. Il drammaturgo, scrittore e poeta tedesco, fra i maggiori esponenti del teatro contemporaneo, nonché, negli anni fra le due guerre, il pioniere della canzone d’autore. Con liriche dal forte impegno politico e sociale, a metà fra canzone e cabaret. Sotto la regia di Strehler, Milva reinterpreta le sue canzoni, in italiano e anche in tedesco, e lo fa in maniera straordinaria: al punto che ottiene un eccezionale successo anche in Germania, dove oggi è considerata la maggiore interprete dell’opera di Brecht. Con il disco Milva canta Brecht (1971), si aprono per lei le porte di una fama planetaria: dalla Germania all’Olympia di Parigi, dalle Americhe fino al Giappone. Milva recita per il teatro e per il cinema, e in maniera indimenticabile ne L’opera da tre soldi di Brecht, allestita da Strehler. Quasi contemporaneamente, nel 1972, pubblica La filanda e altre storie, dedicata allo straordinario repertorio delle nostre canzoni popolari, sociali e di protesta, fra cui una splendida Bella ciao delle mondine (1972) (che molti ritengono la versione originale di Bella ciao); l’entusiasmo è tale che quello stesso anno sarà Ennio Morricone a musicare e produrre per lei un nuovo disco, Dedicato a Milva da Ennio Morricone.
Finita qui? Macché. Negli anni ’80, Milva si impone come grande interprete della più moderna canzone d’autore. Dapprima è Enzo Jannacci che scrive per lei La rossa (1980), un disco di una bellezza commovente: nell’interpretazione di E io ho visto un uomo, Milva ci regala una delle perle più toccanti e profonde dell’intera canzone italiana. Subito dopo è la volta di Battiato, che all’apice del successo scrive per lei Milva e dintorni (1982), con canzoni come la celeberrima Alexander Platz o A cosa pensi, fra i suoi testi più poetici. Milva tornerà più volte a cantare Battiato, in due album bellissimi, Svegliando l’amante che dorme (1989) e Non conosco nessun Patrizio! (2010), l’ultimo.
Nel 1984, Milva avvia la collaborazione con uno dei più grandi musicisti del mondo, il fisarmonicista argentino Astor Piazzolla: con lui si esibisce in straordinarie tournée internazionali e lo canta anche in italiano, nell’impressionante Morirò in Buenos Aires (1998). Dà voce anche alla poetessa Alda Merini, con brani di straordinaria forza e melodia come Sono nata il 21 a primavera (2004) o I sandali (2004); o al gigante della canzone sovietica, il dissidente Vladimir Vysotskij (Cavalli bradi, 1993); e ancora alla migliore poesia e musica greca (il disco La mia età, 1979, o Volpe d’amore, 1994, impegnato e antimilitarista, che ha successo anche in Grecia).
Milva riesce a diventare un tutt’uno con le sue canzoni e con gli artisti con cui collabora: si dona completamente, fino alla fine, si fonde nella loro opera. E lascia l’Italia prima, poi il mondo intero, ammirati e commossi.