Ciao, nudo!

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Roberto Citran

Ciao, Nudo!

disegni

Alla parrocchia ero conosciuto come “Nudo”.

Inizialmente era stato scelto Robinud, presto diventato Robinudo, ma questo era troppo lungo per la palla avvelenata, rimase così soltanto il nudo. Mi dava una certa originalità; ero l’unico Nudo della compagnia e forse anche di tutta Padova.

Via Lattea

Roberto Citran

Ciao, Nudo! disegni di Franco Matticchio

dello stesso illustratore: Ti tirano le pietre

ISBN 979-12-221-1134-6

Prima edizione novembre 2004

Nuova edizione ottobre 2025

ristampa 9 8 7 6 5 4 3 2 1 0

anno 2029 2028 2027 2026 2025

© 2025 Carlo Gallucci editore srl - Roma

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Roberto Citran

Ciao, Nudo!

disegni di Franco Matticchio

Ma come xe scritto?

Il dialetto era la lingua che parlavamo da bambini e che soprattutto udivamo dai nostri genitori. A volte ho cercato di addolcirlo; altre l’ho lasciato così come lo ricordo, cercando di renderne fedelmente il suono.

Ti coppo: forma italianizzata di “ti ammazzo”. Si dovrebbe dire te copo, che fa anche più paura. Mia madre, quando combinavo qualcosa che non andava, per spaventarmi (e ci riusciva benissimo) mi urlava: Te copo de botte!

Vago: significa vado. L’infinito è ’ndare (e non vagare) da cui ’ndemo (andiamo) o ’nde (andate).

Vardare: guardare. Cambia di significato a seconda del tono di voce.

Esempio: Varda che robaaa è un’espressione di meraviglia. Varda che roba! esprime disgusto (usata sempre da mia madre quando tornavo dal patronato, dopo aver giocato per ore, tutto sporco).

Xe: equivale a “è”. Xe ’sta jù (È stato lui!). La “x” è da leggersi come la zeta dolce. Immaginatevi il suono di una zanzara: szzz…

Ambrosiana: partita di calcio con una sola porta e quindi con un solo portiere. Di solito si facevano i turni, regolarmente mai rispettati.

Crogne: tipico sadismo degli adulti, specie dei sacerdoti della nostra parrocchia. Con le nocche della mano chiusa a pugno, si sfrega il cranio fino a far sentire un leggero bruciore.

Bauco: sinonimo di macaco. Quando l’ingenuità diventa segno di scarsa reattività. Spesso, per sottolineare la poca prontezza, si allunga l’ultima vocale (baucoo, macacoo).

Anca massa: letteralmente “anche troppo”. Espressione di conferma. Esempio: “Sei stato a messa?” “Anca massa! ”

C’è una foto che ricordo in modo particolare, ritrae noi quattro fratelli, due maschi e due femmine, in scala per età e altezza davanti alla basilica del Santo. Non mi sono mai chiesto se dietro la macchina fotografica ci fossero i miei genitori. Per me quella foto è nata così, da sola, e se dovessi dire che cos’è la famiglia mostrerei quella foto.

Abitavamo in un vecchio palazzo del centro, in affitto dalla contessa Giusti. Il fatto che la proprietaria fosse una contessa faceva sentire un po’ nobile anche me, ma sulla facciata non c’era nessuno stemma e mia madre diceva sempre che il giorno che avesse avuto una casa tutta sua senza dover pagare l’affitto a nessuno sarebbe stata finalmente felice. Nostra sorella più grande era l’unica che aveva visto la contessa:

«È brutta, vecchia e ha un cane che sembra un topo. Quando sarò grande, comprerò una villa alla mamma».

«Anch’io!» «Anch’io!» «Anch’io!»

Il nostro grande sogno era comprare una casa per nostra madre, col giardino.

All’ingresso c’era un androne dove si appoggiavano le biciclette e accanto un sottoscala che arrivava fin sotto al portico dove andavo di nascosto a raccogliere le monetine che cadevano ai passanti o a vedere le mutande delle donne.

La cucina era il cuore della casa, il centro della vita di tutta la famiglia. Lì mangiavo, facevo i compiti, merenda, mi lavavo la mattina prima di andare a scuola e qualche volta aiutavo la mamma a sbucciare i piselli.

Le più grosse rincorse con mia madre avvenivano proprio attorno al tavolo della cucina. Quando si accorgeva che non aveva più fiato mi terrorizzava con un urlo:

« FERMITI, SINNÒ TI ACCOPPO!»

Nell’agitazione parlava uno strano miscuglio tra italiano e dialetto. Era il segnale che non ce la faceva più. Da lì in poi le botte sarebbero state direttamente proporzionali al tempo: più tardi mi raggiungeva,

più ne prendevo. Non restava che fermarsi, chiudere gli occhi e sperare che finisse presto.

La mia camera era l’ultima in fondo al corridoio, all’angolo della casa. Una finestra dava su via Santa Sofia, l’altra su via Cesare Battisti, il patriota. Dalla parte di via Santa Sofia potevo vedere la camera da letto e la finestra alta e stretta del gabinetto dei nostri dirimpettai: i signori Craponi.

Ogni volta che sentivo lo sciacquone mi immaginavo il culone della signora Craponi con l’aureola del water tatuata sul grosso sedere. Nascosto, dietro gli scuri, cercavo di vedere il viso beato e alleggerito della nostra vicina e soprattutto il suo culo, ma la finestra si apriva solo per metà e a vista rimaneva la catena, ancora ciondolante.

Dalla parte di via Cesare Battisti c’era l’osteria “Sette teste”. Cliente fisso era Bruno Polga. Piegato sulla sua bicicletta da corsa e vestito come fosse al giro d’Italia, lo vedevo avanzare dal fondo della via. Come colto da un raptus, si toccava prima il naso, poi la fronte e infine la bocca. Riafferrava il manubrio al volo e riprendeva la corsa. Ripeteva i gesti con regolarità e velocità impressionanti, aggiungen-

do qua e là tic diversi che completavano la già ricca coreografia.

C’era chi raccontava che fosse rimasto sepolto una settimana sotto le macerie dopo un bombardamento, qualcun altro diceva che era stato dimenticato in un sottomarino, dopo che era già finita la guerra. Nessuno in realtà sapeva esattamente cosa gli fosse successo. Quando arrivava, sembrava circondato da centinaia di mosche, eppure l’aria era pulita e tersa. Era sempre sul punto di rovinare a terra, ma Bruno non cadeva mai, le sue erano vere acrobazie. Una volta sceso dalla bicicletta si fermava davanti all’osteria e urlava:

«Tosi, è arrivato el capoufficio» si toccava tre, quattro volte il naso e la fronte e poi entrava.

Io dormivo con mio fratello Gianni; mi piaceva chiacchierare con lui prima di addormentarmi. Una sera mi chiese chi fosse il mio calciatore preferito:

«Gianni Rivera»

«Bravo! E il cantante?»

«…Claudio Villa»

«Ma sei scemo? Claudio Villa è vecchio, vuoi mettere i complessi?»

Improvvisamente saltò sul letto e cominciò a cantare a squarciagola in una strana lingua, suonando una chitarra elettrica immaginaria: « Deon deon do de de don wiek rolen to rock en roll». Veramente lo scemo sembrava lui, ma l’idea della chitarra elettrica piaceva anche a me, così io mi lasciai andare a un assolo mentre Gianni passava alla batteria. Quando giunse mia madre il complesso era in pieno delirio. Deon deon de do de de don, tum tu tum tumbu tu tum chis chis chis!

«BASTA! COS’È QUESTA CONFUSIONE! A LETTO CHE È TARDI!»

Il concerto finì all’istante, ma mio fratello mi aveva convinto. I complessi erano molto meglio di Claudio Villa.

La camera delle nostre sorelle era di fianco alla nostra. Loro non suonavano, leggevano tutte le sere. Una mattina, Carla si sentì male e vomitò sul pavimento. Gemma, mia sorella più grande, mentre usciva dalla stanza per avvisare mia madre, mi vide nascosto dietro la porta: «Non entrare, che dopo ti fa schifo e vomiti anche tu». Ma la tentazione era troppo forte, appena Gemma girò le spalle entrai per curiosare e vomitai anch’io.

Uno dei miei posti preferiti della casa era il gabinetto. Mi piaceva stare delle ore seduto sul water a leggere. Mi portavo una pila di giornaletti, li appoggiavo sulla sedia e uno alla volta li sfogliavo fino a che non arrivava mia madre che mi urlava di uscire. Un giorno mentre stavo leggendo I Ragazzi della via Paal, Gemma cominciò a strillare: «Sono due ore che sei dentro! Esci o sfondo la porta!»

Ero giunto al momento in cui uno dei bambini, preso dal delirio della malattia, suonava la trombetta prima di morire, quando apparve improvvisamente Gemma, che a due centimetri dal naso mi urlò: «Si legge in camera, non in bagno!» Era furiosa.

Raccolse quel che restava del chiavistello e mi fece uscire. Tra le lacrime e con il libro sotto il braccio andai nella mia stanza e mi buttai sul letto. Il povero Erno Nemecsek era morto e io non avevo nemmeno finito di fare le mie cose.

Roberto Citran (Padova 1955)

è attore cinematografico, teatrale e televisivo, nonché regista di documentari. Vincitore della Coppa Volpi nel 1994 per il film Il toro , ha recitato in moltissimi film italiani e internazionali, sotto la guida di grandi registi, fra cui Carlo Mazzacurati, Paolo Virzì, Andrea Segre, Peter Greenaway. Di recente è comparso in Conclave (2024) tratto dal romanzo di Robert Harris.

Gigi ci descrisse il suo primo bacio, spiegando che si apre la bocca, le labbra si appoggiano e poi si chiudono gli occhi e infine le due lingue si sfiorano. «Che schifo!» urlò Gianni. E cominciò a sputare per terra e ad asciugarsi la bocca col fazzoletto.

L’infanzia di Roberto, ultimo di quattro figli, è un’avventurosa serie di episodi uno più comico dell’altro: i dispetti tra fratelli, le mascalzonate con gli amici, l’ingenua scoperta dell’altro sesso, le gare di bravura in abilità stravaganti, le lunghe partite di calcio all’oratorio. E poi ci sono gli incomprensibili adulti, con le loro regole un po’ severe che sono i primi a non rispettare. In un esilarante miscuglio di italiano e dialetto, Citran ci regala il racconto nostalgico e divertito di un’epoca più limpida, genuina, a misura d’uomo della nostra, in cui però tutti possiamo ancora riconoscerci.

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